Film
francese del 2001, che io consiglio caldamente.
E’ la
classica pellicola per ragazze sognatrici, che in un certo senso sperano in una
esistenza migliore o che, come la protagonista Amélie, vivono in un universo
tutto loro.
“Il mondo esterno appare così morto che Amèlie
preferisce sognare una sua vita in
attesa di avere l’età per andarsene”. L’ho fatto anch’io. Lo faccio.
Sognare una vita inesistente, immaginarla, aspettando che prima o poi si
realizzi. Fa stare in pace, mette serenità e soprattutto dà speranza.
E insomma,
Amèlie vive un mondo come piace a lei, in modo semplice e sereno, cogliendo dei
dettagli che pochi altri noterebbero.
“Al cinema mi piace molto voltarmi
nel buio ed osservare le facce degli altri spettatori e poi mi piace cogliere quei
particolari che nessuno noterà mai”, appunto. Nella vita reale poche persone lo fanno, perché
si è talmente concentrati sulla meta finale da non fermarsi ad osservare i
piccoli dettagli lungo il percorso.
Si perde in
domande futili, che pone a se stessa, ma che sono al contempo le più
interessanti: “[…] Si diverte a porsi
domande cretine sul mondo o su quella città che si estende davanti ai suoi
occhi. Per esempio, quante coppie in questo preciso istante stanno per avere un
orgasmo?”.
Nel corso
del film, la nostra protagonista, interpretata per altro da quella gran
bellezza di Audrey Tautou, dotata di un viso spettacolare e di un nasino
perfetto, aiuta i suoi amici, colleghi, conoscenti ed anche sconosciuti ma che
sono legati a lei da fili sottilissimi e dal caso, ad essere in qualche modo
più contenti e soddisfatti mediante piccoli e semplicissimi gesti che alla
ragazza non costano assolutamente nulla. Ad esempio, la rapida scena del cieco:
Amèlie prende per il braccio il cieco della sua città e lo accompagna per un
tratto di strada, descrivendo nel frattempo ciò che sta accadendo nello spazio
circostante: “Dal macellaio c’è un bambino
che guarda un cane che guarda i polli arrosto”.
In questo
modo ha reso partecipe del mondo quel vecchio cieco che probabilmente non
ricordava più come fosse la vita della sua città.
Ma Amelie
non è l’unico personaggio particolare del film, difatti è circondata da soggetti
le cui peculiarità e il loro essere eccentrici sono volontariamente (penso)
esagerati: la collega ipocondriaca, il fissato ed iper-geloso uomo del bar, il “vicino-di-vetro”
che per una malattia delle ossa deve stare attento a non sbattere contro le
cose e per questo in casa si muove con delle morbide protezioni, ricordando
quasi un giocatore di rugby alle prime armi (non chiedetemi perché), il fruttivendolo
infame e il suo tenero e tardo aiutante. E via così.
Perciò la
nostra Amelie si muove in questo universo tanto surreale (reso quasi più magico
e sereno da quella specie di “patina gialla”, credo voluta. Guardando capirete
di cosa parlo), ma anche a lei capita di ritornare alla realtà dei fatti.. e
finisce per piangere, rendendosi conto di sentirsi effettivamente sola.
In una scena
precisa lascia intravedere quel velo di tristezza che accomuna tutte le
persone, ma che in lei è il più delle volte nascosto da sorrisi e dolce
ingenuità.
“Mia piccola Amélie, lei non ha le
ossa di vetro. Lei può scontrarsi con la
vita. Se lei si lascia scappare questa occasione con il tempo sarà il suo
cuore che diventerà secco e fragile come il mio scheletro. Perciò si lanci,
accidenti a lei!”
Anche questo
insegna il film: ok vivere in un universo creato su misura per noi stessi, che
fa stare bene, ma bisogna anche scontrarsi con la vita che ci si pone davanti.
Mi è
piaciuto il fatto che per descrivere i vari personaggi siano state elencate
cose che a loro piacevano e non piacevano: “A
Raphaël Poulain non piace: fare pipì accanto a qualcuno; sorprendere uno
sguardo di disprezzo sui suoi sandali; uscire dall'acqua e sentirsi il costume appiccicato
addosso. A Raphaël Poulain piace: strappare enormi pezzi di carta da parati;
mettere in fila le sue scarpe e lucidarle con cura; svuotare la scatola degli
attrezzi, pulirla bene, e riporre tutto, alla fine.”
Ed ho anche
apprezzato la musica di Yann Tiersen. Sì. Perché la musica e la colonna sonora
può cambiare il modo di percepire il film.